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Tutto il mondo in un frammento – Tre ipotesi sulla lotta in Val Susa

 

Tutto il mondo in un frammento

Tre ipotesi sulla lotta in Val Susa

 

1. La lotta in Val Susa non è una lotta locale.

Se si vuole continuare a chiamarla così, occorre dare alla parola “locale” tutt’altro senso da ciò che si intende abitualmente. Un punto di forza di questa lotta è la sua capacità di collegarsi con moltissime altre situazioni. Attraverso gli anni si sono tessuti legami, sono state tracciate linee di corrispondenza, si sono scoperti sentieri segreti tra la Val Susa e innumerevoli altri luoghi in Europa. E’ proprio sul suo terreno che la lotta ha già sconfitto il treno ad alta velocità: è stata capace di ridurre le distanze in proporzioni vertiginose – sia tra abitanti della stessa Valle che tra valsusini e “gente da fuori”.

I No TAV hanno tuttavia stretto un rapporto molto intenso con il terreno centrale della lotta, la Val di Susa, costruendo poco a poco una forza d’urto che non si ritrova da nessun’altra parte della penisola.

In una certa misura, i No TAV hanno superato l’opposizione fittizia fra locale e globale. Fittizia nel senso che da una parte non vi è più quasi nessun luogo sul pianeta che non sia connesso ai flussi globali: importazione ed esportazione di merci, imposizione della cultura, della lingua, della sovranità dei colonizzatori, collegamento alle reti telefoniche e informatiche, copertura satellitare, immigrazione ed emigrazione; fittizia anche perché dall’altra parte non vi è nessun potere né nulla che lo combatta che non sia materiale, collocato, che non si esprima nella configurazione fisica, topologica dei luoghi e delle cose.

La potenza che si esprime in Val Susa deriva dal fatto che non si lotta contro delle astrazioni (il Capitale, lo Stato, una legge, l’inquinamento o la mafia per esempio) ma contro la maniera concreta – localizzata – attraverso cui queste astrazioni governano delle vite, configurano degli spazi, diffondono degli affetti.

Cosa vuol dire essere No TAV? Vuol dire partire da un enunciato semplice: “il TAV in Val Susa non passerà mai” e organizzare la propria vita per fare in modo che quell’enunciato si verifichi. Da vent’anni, moltissimi si sono incontrati intorno a questa certezza. Da lì, da quel punto molto particolare su cui non si cederà mai, tutto il mondo attorno si riconfigura. La lotta in Val Susa riguarda il mondo intero, non in quanto difende in generale il « bene comune », ma perché lì viene pensata in comune una certa idea di ciò che è bene. Questa si scontra con altre concezioni, si difende da chi la vuole annientare e si lega con chi si trova in affinità con essa.

2. La Val Susa è parte della metropoli.

La Val Susa viene spesso descritta dai suoi detrattori come un luogo arretrato, popolato da montanari incolti, che rifiutano il progresso riscaldandosi con la legna dei loro boschi sperduti. E’ una falsa caricatura. Allo stesso tempo, molti No TAV veicolano un’altra caricatura, inversa a questa: la Val Susa sarebbe una valle bellissima, selvaggia, vergine, che il mostro del TAV vorrebbe distruggere, sfruttare, annientare. Come nel villaggio di Asterix o il pianeta del film Avatar, si tratterebbe di difendere un territorio incontaminato minacciato dalle forze del male, sbarcate per colonizzarlo. E’ tempo di sbarazzarsi di queste due caricature speculari e affermare chiaramente: la Val Susa è parte della metropoli. E’ un’evidenza che non tutti vogliono ammettere, in valle, ma sopratutto fuori, dove si è diffuso un “mito della valle”.

Chi sono in fin dei conti questi mitizzati valsusini? Quanto sono diversi a priori del resto degli Europei? Non si rincoglioniscono, forse, con la stessa televisione, non mangiano le stesse merendine, non desiderano le stesse merci? I loro figli non giocano, forse, con le stesse playstation? La loro memoria, ancora iscritta negli anfratti di roccia, ricca di storie di eretici, streghe e partigiani è trasformata in folklore dalle guide turistiche e soprattutto privata di ogni  potenziale pericolosità storica. La comunità valsusina, se mai fosse esistita, oggi non esiste più. La possibilità di esistere, in quanto tale, è tutta nel suo divenire.

Percorsa da un enorme viadotto autostradale, sfigurata dalle centrali idroelettriche, folklorizzata dall’industria del turismo, per quanto si possa essere affezionati alle acque della Clarea, la Val Susa non è una valle incontaminata, un’isola felice fuori dai flussi di merce che costituiscono la trama del mondo.

Al contrario, la Val Susa è già oggi, TAV o non TAV, un corridoio ad alta portata della rete transeuropea di trasporto merci, e di conseguenza ne sopporta il peso infrastrutturale devastante. Il confine tra metropoli e montagna si è ormai perso nello spazio tempo della logistica, che annulla le distanze, distruggendo ogni prossimità e ogni differenza. Rimane dunque ben poco da “conservare” in questa terra di vigne abbandonate e poli internodali.

Per questo motivo i luoghi che il movimento si è dato nel corso di questi vent’anni, come i blocchi in autostrada, la baita Clarea o il presidio di Venaus, o, ancora più intensamente, esperienze come la Libera Repubblica della Maddalena, non si sono limitati a difendere un “territorio” per come era, ma l’hanno vissuto ed abitato per come poteva essere.

Lo stesso si può dire dei quartieri delle nostre città, che dal punto di vista urbanistico non esistono più, ma nulla (a parte forse la polizia) ci impedisce di provare a viverli come tali.

La lotta non difende un territorio che la precede, ma lo fa esistere, lo costruisce, gli dà consistenza.

3. Che il “cantiere” di Chiomonte non sia nient’altro che una caserma non è un’assurdità.

Anzi, questo fatto mette a nudo l’essenza stessa di ogni infrastruttura, l’indistinguibilità tra il flusso e il suo controllo. Il carattere sempre più immanente, orizzontale, diffuso di questo cosiddetto “controllo”, sempre più introiettato nell’architettura del mondo fisico, sempre più impossibile da isolare dai processi su cui si “applicherebbe”, ci fa riflettere sull’appropriatezza di questa nozione.

A volte ci si domanda: la valle è militarizzata per difendere un cantiere o è questo cantiere, a prima vista privo di senso, ad essere un pretesto alla militarizzazione? Non si sa più chi serve e chi comanda. E sarà sempre di più così, mano a mano che politica ed economia, queste astrazioni tutto sommato abbastanza recenti, si sciolgono in ogni dispositivo, mano a mano che il governo degli uomini si confonde con l’amministrazione delle cose.

L’ordine non è mai consistito nell’impedire la circolazione, ma sempre nel regolare, selezionare. Il TAV non è una macchina di morte, è una macchina che ordina la vita, le dà una certa forma, una certa velocità. E si può dire la stessa cosa di ogni manifestazione del capitalismo nelle nostre esistenze. Non si può più dire che il TAV, o qualsiasi altro abominio, sia inutile, assurdo, insensato. “Di fronte ad ogni dispositivo, la domanda sbagliata è: «a che serve?». La domanda giusta, materialista è invece: «cosa produce, quale operazione realizza questo dispositivo?”.

La linea ad alta velocità è ideologia materializzata. La concretizzazione, fatta di cemento, d’acciaio e di divise blu di una concezione del mondo del tutto estranea a noi ma che non possiamo permetterci di non capire. Le lunghe liste di ragioni contro il TAV descrivono un’opera priva di senso, anche da un punto di vista statale o capitalistico. Senza nulla togliere all’utilità di tali documenti, per propagare la diffidenza nei confronti del progetto, occorre fare un passo in più e cercare di decifrare la logica dietro quell’infrastruttura apparentemente illogica. Ci manca spesso il linguaggio per farlo, le giuste categorie, abituati ad esprimerci nell’inadatto gergo politico del secolo scorso. Ma vale la pena sforzarsi, perché scoprendo i principi che reggono questo mondo nel cuore della sua infrastruttura potremmo anche trovare la formula per rovesciarlo.


Ogni governo è tecnico, il potere sta nelle infrastrutture.
Blocchi ovunque, autonomia diffusa.

(testo  distribuito durante il corteo del 25 febbraio in Val Susa)