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[Roma] 12 Maggio – Corteo per Giorgiana Masi – ore 15

06-Mag-12


Per non dimenticare Giorgiana Masi

 

Per la solidarietà ai compagni e alle compagne arrestate

 

 

 

Il 12 maggio del 1977 le squadre speciali dell’allora ministro dell’Interno Francesco Kossiga assassinavano Giorgiana Masi, compagna femminista scesa in piazza insieme a tante e tanti altri sfidando il divieto di manifestare, nell’anniversario della vittoria referendaria sul divorzio. Le forze di polizia risposero sparando candelotti lacrimogeni e colpi di arma da fuoco. Picchiati e maltrattati anche fotografi, giornalisti e passanti.

 

Pochi minuti prima delle 20, durante l’ennesima carica della polizia, due compagne furono raggiunte da proiettili sparati da Ponte Garibaldi, dove erano attestati poliziotti, carabinieri e agenti in borghese. Elena Ascione rimase ferita a una gamba. Giorgiana Masi, 19 anni, studente del liceo Pasteur, venne centrata alla schiena. Morirà durante il trasporto in ospedale.

Le chiare responsabilità emerse a carico di polizia, questore, Ministro dell’Interno, porteranno il governo con la complicità vergognosa del PCI, a intessere una fitta trama di omertà e menzogne. Kossiga prima elogiò in Parlamento “il grande senso di prudenza e moderazione” delle forze dell’ordine, poi fu costretto a modificare la propria versione dei fatti, ammettendo la presenza delle squadre speciali ma continuò sempre a negare che la polizia avesse sparato, pur se smentito da testimoni, foto e filmati.

 

L’inchiesta per omicidio si concluse nel 1981 con sentenza di archiviazione del giudice istruttore Claudio D’Angelo “per essere rimasti ignoti i responsabili del reato”.

 

Questa, in breve, la storia di quella giornata da cui sono passati 35 anni.

 

Da almeno 15 anni non si svolge una manifestazione nazionale in ricordo di Giorgiana, l’ultima fu nel 1997. Da almeno 5 anni non si svolge neanche più un corteo cittadino.

 

 

In questi ultimi tempi assistiamo a una crescente repressione e violenza dello Stato contro movimenti e individui, diversi per pratiche e ispirazioni, ma tutti mossi da una critica alla società esistente.

 

Il numero delle persone arrestate, rinchiuse e trattate, perché socialmente non disciplinate, sale di giorno in giorno. A dimostrazione che alla brutalità delle forze dell’ordine è sempre seguita la solerte repressione della magistratura: dalle 10 condanne per devastazione e saccheggio per il G8 di Genova 2001 con le quali sono stati dati fino a 12 anni di carcere, agli ultimi arresti del 15 ottobre del 2011, condannati a pene esemplari per il semplice reato di resistenza aggravata.

 

 

Anche alle lotte contro la nocività e al movimento NoTav hanno presentato il conto: centinaia di persone ferite alcune anche in maniera grave, truppe d’occupazione, espropri, per non parlare degli ultimi arresti e denunce.

 

 

Nonostante questo noi vogliamo continuare a metterci in gioco in prima persona.

 

 

 

SABATO 12 MAGGIO ORE 15

 

APPUNTAMENTO A PONTE GARIBALDI

 

 

le compagne e i compagni


[Teoria] Preliminari a ogni lotta anti-carceraria

05-Mag-12

PRELIMINARI A OGNI LOTTA ANTI-CARCERARIA

 

Fino a che si ripete indefinitamente lo stesso ritornello

della canzonetta anti repressiva, le cose restano al loro posto

e chiunque può cantare la stessa aria senza che vi si presti attenzione.

Michel Foucault

1.

La lotta anti-carceraria non ritorna così come l’avevamo lasciata. E noi stessi, tornandoci, non lo facciamo in tutta innocenza, come se non sapessimo in che modo negli anni settanta è fallita.

2.

La funzione della prigione nell’economia generale della servitù è di materializzare la falsa divisione tra criminali e innocenti, tra buoni cittadini e delinquenti. Questa “utilità” non è sociale senza essere, allo stesso tempo, psichica. È il fatto di rinchiudere e torturare il prigioniero ciò che produce il sentimento di innocenza del cittadino. Così come, fino a quando non sarà ammesso il carattere criminale di ogni esistenza sotto l’Impero, persisterà il bisogno di punire e di vedere punire; e nessun argomento varrà contro la prigione.

3.

La divisione tra criminali e innocenti è falsa. Rovesciarla non fa che raddoppiare la sua menzogna. Ogni volta che nella lotta contro le prigioni presentiamo i prigionieri come i bravi ragazzi, come le vittime, riproduciamo la logica di cui la prigione è la sanzione.

4.

La frase “la prigione è il buco nero della società” è vera a condizione di aggiungergli questo corollario: non esiste “la società”. Non è “la società” a produrre la prigione. Al contrario: è la prigione che produce la società. È solo ponendosi e costruendosi un fuori fittizio, la prigione, che SI crea la finzione di un dentro, di un’inclusione, di una appartenenza. Che le tecniche attraverso cui SI gestisce il quotidiano delle metropoli imperiali e quelle dei detenuti siano sensibilmente la stessa cosa, ecco quello che deve rimanere esclusivo patrimonio dei gestori. “Una prigione è una piccola città. Vi si dorme, vi si mangia, vi si lavora, vi si insegna, si fa dello sport, si va a messa. Solo che la vita che ne risulta è sotto costante costrizione. In una via ci sono negozi, cinema, etc. E mi chiedevo perché non ritrovare questa dimensione in prigione? E come farla vivere senza che la precarietà sia rimessa in causa ”. Detto da parte di uno dei principali architetti delle nuove prigioni francesi, non sarebbe prudente aggiungere altro.

5.

Il silenzio che senza sosta circonda il funzionamento delle prigioni ci impone a volte di parlare in nome dei prigionieri. Questo avviene con la speciale sensazione di essere “dalla parte giusta della barricata”. Per lungo tempo SI è parlato in nome degli operai, in nome dei proletari, in nome dei sans-papiers, etc. Fino a quando questi non hanno preso parola per dire tutt’altro da ciò che ci SI attendeva da loro. Questo difetto si chiama ventriloquio politico. Ogni ventriloquio politico ci mette in una parentesi confortevole: portiamo avanti un discorso che, proprio perché non ci riguarda direttamente, non può metterci in questione. Ci risparmia dal constatare che sotto l’Impero, cioé sotto un regime di potere che non permette alcuna esteriorità radicale, ogni esistenza è abbietta in quanto partecipa, perlomeno passivamente, al crimine permanente che è la sopravvivenza di questa società. Se avessimo bisogno di una causa giusta per rivoltarci, nessuno degli abitanti delle metropoli avrebbe titolo a farlo visto la parte che ognuno di noi svolge quotidianamente nel saccheggio universale. E nessuno stakanovismo militante, nessuna abnegazione sarà sufficiente per espiare questa connivenza. La nostra condizione non è quella della classe operaia durante la prima “rivoluzione industriale”, una condizione che poteva ancora opporre alla morale dei consumatori, alla morale borghese, la propria morale di produttori. La nostra condizione è quella della plebe. Abitiamo le zone centrali dell’Impero nel mezzo di una indigeribile abbondanza di merci. Ci abituiamo quotidianamente all’intollerabile – una pattuglia di sbirri armati nelle nostre strade, un vecchio che si addormenta sulla griglia di aerazione della metro, un amico che ci tradisce pubblicamente e che non uccidiamo, etc. Noi attraversiamo più volte al giorno dei rapporti puramente mercantili. E, fatta salva la nostra cattiva coscienza, ogni volta che ci diamo dei mezzi per un’offensiva realizziamo una forma di accumulazione primitiva. Se la questione fosse sapere ciò che noi siamo, ebbene di certo non siamo “i poveri”, “gli spossessati”, “gli oppressi” e questo proprio nella misura in cui abbiamo ancora la forza di lottare. Ciò che ci tiene insieme, in verità, non è la rivolta contro l’eccesso di infelicità che affligge attualmente il mondo, ma un disgusto duraturo per le forme di felicità che propone. La nostra posizione è dunque quella indegna, dispendiosa, schizofrenica, della plebe che non può ribellarsi all’Impero senza ribellarsi contro ciò che essa è, contro la posizione che vi occupa. Non c’è ormai nessuna rivolta che non sia allo stesso tempo rivolta contro noi stessi. Tale è la bizzarria dell’epoca e, d’ora in avanti, la posta in gioco di ogni processo rivoluzionario.

6.

“La giustizia penale sta diventando una giustizia funzionale. Una giustizia di sicurezza e di protezione. Una giustizia che, come tante altre istituzioni, deve gestire una società, deve scoprire ciò che la mette in pericolo, allertarla sui propri pericoli. Una giustizia che si dà come obiettivo di vegliare su una popolazione piuttosto che rispettare dei soggetti di diritto.” (Foucault). La prigione non è fatta per le classi pericolose ma per i corpi ribelli – la millimetrica costrizione nell’educazione borghese o l’ossessione del comfort specifica della piccola borghesia planetaria spiegano senza dubbio la scarsità di corpi ribelli in alcuni ambienti, e la sotto-rappresentazione di quest’ultimi nella rappresentazione carceraria. Per la civiltà si tratta ormai di gestire, attraverso la prigione come attraverso tanti altri dispositivi, la sua putrefazione e differirne, per quanto sia possibile, il prevedibile crollo. L’Impero promette a tutti quelli che non funzionano, a tutti quelli che disturbano, ovunque ciò accada, la situazione normale. È così che la civiltà spera di sopravvivere: assicurandosi il confinamento dei “barbari”.

7.

Conosciamo la prigione, la minaccia della prigione, come ostacolo manifesto alla libertà dei nostri gesti. La lotta dall’esterno contro la prigione, rendendocela familiare, liquidando la potenza di angoscia che gli è propria, deve rompere questa minaccia. Si tratta, attraverso questa lotta, di sopprimere in noi la paura di lottare. È chiaro che non è una necessità morale che ci porta alla lotta anti-carceraria ma una necessità strategica, quella di renderci collettivamente più forti. “L’efficacia della vera azione risiede all’interno di se stessa”.

8.

“Quello che si dice è: niente più prigioni. E nel momento in cui, a questa specie di critica di massa, le persone ragionevoli, i legislatori, i tecnocrati, i governanti rispondono: “e cosa volete dunque?” La risposta è: “Non sta a noi dirvi con quale salsa vogliamo essere mangiati; non vogliamo più giocare il gioco della penalità, non vogliamo più giocare questo gioco delle sanzioni penali, non vogliamo più giocare al gioco della giustizia”.” (Foucault)

9.

La logica rivoluzionaria e la logica di sostegno ai prigionieri in quanto prigionieri non coincidono. Il sostegno ai prigionieri è guidato da una solidarietà affettiva, umana se non umanitaria, con tutti coloro che soffrono, con quelli che il potere schiaccia – l’attività dei cattolici del Génépi (organizzazione francese che si occupa dell’assistenza ai detenuti, n.d.t.) vi trova la sua ragione d’essere. La logica rivoluzionaria è strategica, a volte inumana e spesso crudele. Fa appello a tutto un altro tipo di affetti.

10.

In prigione ogni lotta è radicale – in ogni piccola rivendicazione ne va della sopravvivenza o dell’annientamento, della dignità o della follia. E allo stesso tempo ogni lotta è riformista, perché deve elemosinare quello che otterrà, fosse anche attraverso l’ammutinamento, da un potere sovrano che tiene la vita dei detenuti nelle proprie mani.

11.

In tutte le rivoluzioni del XX secolo – 1830, 1848, 1870 – era tradizione che vi fossero delle rivolte all’interno delle prigioni e i detenuti solidarizzassero con i movimenti rivoluzionari che si sviluppavano all’esterno, oppure i rivoluzionari andavano verso le prigioni per aprirne con la forza le porte e liberare i detenuti. In tutti i casi, la via più breve per farla finita con le prigioni resta ancora quella di costruire un movimento rivoluzionario.

12.

Non vi sono vecchi galeotti tra noi. Vi sono degli amici che si sono fatti la prigione. Il galeotto in quanto tale, ovvero colui che anche una volta uscito di prigione resta il vecchio prigioniero, è una figura letteraria, da letteratura poliziesca. Il prigioniero in quanto prigioniero non esiste. Ciò che esiste sono delle forme-di-vita che la macchina penitenziaria vorrebbe ridurre a nuda vita, a della carne pacificamente stoccata. Il mito cellulare esprime il sogno di avere di fronte non più corpi animati da ragioni irriducibili, da affetti violenti, da logiche folli, ma dei pezzi di carne inerti: in attesa.

13.

Sotto l’Impero, ovvero in seno alla guerra civile mondiale, l’amicizia è una nozione politica. Ogni alleanza traccia una linea all’interno dello scontro generale, e ogni scontro impone delle alleanze. Il fatto di imprigionare qualcuno è un atto politico. Il fatto di andare a liberare un amico, per esempio con un bazooka, come di recente è stato fatto a Fresnes, è un gesto politico. I prigionieri di Action Directe non sono politici per il fatto di essere stati incarcerati in quanto hanno lottato, ma perché lottano ancora.

14.

Abbiamo degli amici tra i prigionieri ma non solo. La lotta contro le prigioni non è una lotta per i prigionieri. Vogliamo l’abolizione delle prigioni perché queste limitano le nostre possibilità di alleanze, come la soddisfazione dei nostri dissidi. Vogliamo l’abolizione delle prigioni affinché si rivelino liberamente le vere guerre al posto dell’attuale pacificazione che rende eterna la falsa scissione tra colpevoli e innocenti. Per noi si tratta, anche in questo caso, di dividere la divisione.

15.

Una società che ha bisogno delle prigioni, non meno di una società che ricorre alla polizia, è di certo una società in cui ogni libertà è cancellata. Al contrario, una società senza prigioni non è automaticamente una società libera. Se consideriamo che la prigione si è imposta come forma corrente di castigo solo agli inizi del XIX secolo, non mancano di certo gli esempi storici per illustrare questo fatto.

16.

La brutalità dei secondini, l’arbitrio dell’amministrazione penitenziaria e il fatto più generale che la prigione sia una macchina che stritola gli esseri, niente di tutto ciò fa scandalo. È ormai ammesso che la funzione della prigione è quella di domare i corpi indocili, di addomesticare i “violenti”. In rapporto alla ruota, al rogo o alla ghigliottina, l’incarcerazione è stata sin da subito concepita come il castigo civilizzato e civilizzante. “L’imprigionamento è la pena per eccellenza nelle società civilizzate”, scriveva P. Rossi nel suo Trattato di diritto penale, del 1829. Attendere è di certo la virtù specifica del cittadino; dover domandare il permesso prima di ogni gesto è l’ABC della sua educazione. È nella misura in cui la nostra lotta è essenzialmente lotta contro la civiltà che è anche lotta contro la prigione.

17.

Nella lotta contro la civiltà, la prigione è “il braccio che uccide e la mano che imbroglia”. Ma nessuno può ragionevolmente sostenere che è sbattendo i pugni che si abbatterà l’avversario.

18.

Il ragionamento che consiste nel dire che questa società non potrebbe continuare a funzionare senza le prigioni e che dunque, attaccandole, è la totalità del sistema che si fa vacillare è giusta logicamente ma non praticamente. La prigione non è “l’anello debole”. Il dibattito ricorrente sull’anacronismo delle prigioni, attraverso il suo lato effimero, ci ricorda innanzitutto questo: che questo anacronismo è ciò che garantisce la “modernità” di tutto il resto.

19.

La prigione è quindi, in quanto minaccia, uno dei mezzi che la civiltà sviluppa per dissuaderci dal frequentare il selvaggio che è in noi, di abbandonarci alle intensità che attraversiamo. Già da questa constatazione si comprende come il nemico non sia completamente al di fuori di noi, che la civiltà è un qualcosa su cui abbiamo una presa diretta nella misura in cui già ci possiede. Poiché, alla fine, il dissidio con i cittadini si riduce a questo: che si possa preferire la “barbarie” alla civiltà.

20.

In realtà, nell’epoca di estrema separazione che attraversiamo, la lotta anti-carceraria per noi è innanzitutto un pretesto. Non si tratta di aggiungere un capitolo alla fatica dei militanti ma di utilizzare il progetto di abolizione delle prigioni come base di incontro per organizzarsi in modo più ampio. Allo stesso modo in cui la posta in gioco di ogni lotta dentro le prigioni è, in ultima analisi, quello di conquistare uno spazio di auto-organizzazione, necessario per divenire una potenza collettiva da opporre all’amministrazione, per noi si tratta innanzitutto di costituirsi come forza, come forza materiale, come forza materiale autonoma in seno alla guerra civile mondiale. La lotta anti-carceraria tocca il suo vertice ogni volta che eludiamo la repressione. Trionfa quando riusciamo ad arrogarci l’impunità.

21.

Di fronte alla menzogna della civiltà noi abbiamo ragione. Ma “un mondo di menzogne non può essere rovesciato dalla verità.” (Kafka) Tutta la proliferazione poliziesca che ci circonda esiste per impedirci questo passaggio: per impedirci di divenire, poco a poco, una realtà. Ogni giorno aggiunge un dispositivo alla nostra già organizzata quotidianità. Si tratta di addomesticarci, di braccare ogni nostro resto di potenza, di selvatichezza. Ogni giorno pieghiamo la schiena, scorriamo docilmente nello smisurato rapporto di forza che ci impone la massa dei dispositivi; e la sera ci congratuliamo con noi stessi per essergli sopravvissuti. Ma non è proprio così: ogni volta che ci sottomettiamo, moriamo un po’. La prigione è questo mega dispositivo in cui non si finisce mai di morire a piccole dosi, di morire a forza di sopravvivere. Se occupiamo insieme un luogo carcerario, non dovrà essere fatto per discutere ancora una volta della prigione, dell’imprigionamento e dell’isolamento ma per sviluppare liberamente, in un rapporto di forza rovesciato, il gioco delle nostre forme-di-vita. E mostrare così che si può fare tutt’altro uso dei nostri corpi, e del luogo.

 da: Bloom0101

[Grecia] Civil war, but not as you know it

04-Mag-12

London, United Kingdom – On April 1, 2012 two ministers of the Greek coalition government held a joint press conference: Michalis Chrisochoidis, minister for Citizen Protection (administering the police) and Andreas Loverdos, minister for Health and Social Solidarity, called for an immediate addressing of the issue of undocumented migration in the country. The migrants’ presence had turned, in their words, the centre of Athens into a “hygienic bomb”. The two announced a series of measures including the compulsory issuing of a health certificate for all migrants entering and residing in Greece. Days earlier Chrisochoidis had again announced, on behalf of the coalition government, an ambitious plan to create thirty so-called “closed hospitality centres”: former military bases converted in detention facilities for undocumented migrants who were to be arrested en mass before facing deportation.

The series of announcements came a few weeks ahead of the national elections of May 6, 2012 and, remarkably enough, only days after the publication of an interview by French cultural theorist and urbanist Paul Virilio – titled The Administration of Fear– in which he identified the establishment of a “dual health and security ideology” by Western states unable to any longer offer their citizens the prerogatives of the welfare state, replacing these with a claim that they can cater for their safety instead.

Is that so? Think of the Greek case for a moment. A country experiencing some of the most staggering effects of the recent global financial crisis, anticipating – on May 6 – the first elections since its outburst. You would believe this crisis and its effects on the livelihoods of the population, or the modes of political representation, would take centre stage (Greece is currently governed by a coalition government under Lucas Papademos, an economist and caretaker Prime Minister). The  effects of the crisis had indeed been central in public discourse previous to the announcement of elections, which is when the above anti-migrant shift occurred. It would be easy enough, then, to attribute this rhetorical shift to an attempt to lure an electorate body – an electorate body which, in face of a rapid deterioration of its living standards, seems to have partially taken a disquieted turn. In Virilio’s reasoning, there might be little to offer them other than a promise of security.

But mainstream discourse in Greece seems to be spiralling beyond xenophobia. Soon after the above press conference, Antonis Samaras, leader of the conservative government partner of New Democracy (Nea Demokratia) and touted as the next prime minister, was quick to chime in – and to overbid, even: “our cities have been occupied by illegal migrants”, he declared. “We will reoccupy them.” Such martial tone in leading politicians’ denunciations could appear peculiar at first sight. A country that is still a full member of the European Union, still enjoying one of the longest peacetime periods in its otherwise turbulent recent history, sees politicians use a language of war. Yet still, this language is used only when it comes to external enemies. For domestic matters, the economy, political representation, discourse has changed little, if at all – even though Greek society has seen some of the most dramatic changes ever recorded in the country’s peacetime history.

The hidden casualties of economic restructuring

Just short of two years after the Greek government signed its first memorandum of understanding with the so-called “troika” (IMF/EU/ECB), the radical restructuring programme accompanying it has had some cataclysmic effects. In April 2010, the month before the signing of the first memorandum, the official unemployment figure stood at 11.7 per cent. Less than two years later (Jan 2012) that figure had risen to 21.8 per cent. In the same month, the National Statistical Service (ELSTAT) reported that youth unemployment had for the first time tipped over half of the entire population group (age 15 to 24). At 50.8 per cent, the figure had more than doubled in three years. And these numbers fail to portray a much wider landscape of informal/part-time employment, wild precarity, a rapid decrease in wages and pension payments (the national minimum wage was decreased by approximately 20 per cent alone). This condition is complimented by a spectacular increase in state taxation (numerous new taxes along with sharp increases in existing ones) and – rather unsurprisingly, then – a major wave of emigration that has so far been largely undocumented in official statistics, in part due to the unrestricted migration allowed to citizens of Schengen countries within the entire area. Last but of course not least, Greece has seen the highest rate of year-to-year suicide increase in the EU.

Think of words like famine, mass emigration, “humanitarian crisis” (reported in Athens by the UN Regional Information Centre and several NGOs) and cities that are “occupied” – and you would be excused to believe they are used to describe a war zone of some kind. For many of those experiencing the shifting economic, social and political conditions on the ground, this already feels very much so. The death note of  Dimitris Christoulas, the 77-year old pensioner who publicly committed suicide in Athens’ Syntagma square, seeped through some immense anger: “if a fellow Greek was to grab a Kalashnikov,” wrote Christoulas, “I would be the second after him.”

Uncivil reality and an unspoken, civil war

Christoulas’ suicide was sympathetically and widely reported in national media, momentarily breaking through a veil of silence covering the wave of suicides that was to be laid again only days later when Savas Metoikidis, a 45-year old teacher, also ended his life as an act of political protest. Yet still, what largely went unreported in Christoulas’ case was that his suicide note called for an armed uprising, for “young people with no future to… take up arms and hang this country’s traitors.” The disparity between the note Christoulas left behind and national media coverage widely “condemning” the skirmishes that followed his death and funeral as violent is exemplary of an official discourse that has largely obfuscated the root causes of the crisis, soothing the description of its effects and projecting, finally, a language of war on “outsiders” instead – these “outsiders” ranging from foreign centres of power (Germany, the EU) all the way to undocumented migrants. Barely surprisingly, then, the neo-Nazi group Golden Dawn has found itself being shifted from the social and political margins to the space in the centre of public discourse, by now standing a more than tangible chance of entering the next parliament.

But the case of Golden Dawn is typical of another peculiar, wider condition. For all its obvious connections to neo-Nazi ideology and activities, the group denies this label – opting for the ostensibly milder “nationalist movement” instead. The Golden Dawn are so-called nationalists. Chrisochoidis is a minister for so-called Citizen Protection (a euphemism for the administering of the Greek police, whose human rights abuse record is becoming notorious). Loverdos is a minister for so-called Social Solidarity (perhaps hardly what one would expect from his issuing of compulsory health certificates for all migrants). The unprecedented restructuring of the country’s political economic and social life is articulated through little beyond a series of so-called memorandums of agreement and the need to abide to them: in all, even if the condition of everyday life in Greece is ever-increasingly akin to that of wartime this war still resembles little of the armed conflicts in the country’s recent past. If this is a war, it is a civil, not a Civil one: a war in which the ferocious condition that an ever-increasing proportion of the population is faced with is articulated in a remarkably subdued, civil tone.

With an ever-increasing disparity between events on the ground and their articulation it was only a matter of time before the plexus of power would have to declare a war in some direction, as a tried and tested means to keep hold of its legitimisation. In this sense, it is barely surprising to see this is war now being waged against the weakest, with xenophobic discourse running rife and Nazi followers gaining a foothold in mainstream political representation. And yet for many, the introduction of martial undertones in this official discourse finally reveals – even if skewed – a previously undeclared war that has been raging domestically and on the ground. This had so far been a war of no words; in recent days and weeks, it has become a war of false words. What becomes a pivotal question then is if and when Greece’s combatant condition will be articulated coherently; whether and when this veil of civility over a society largely at war will finally be lifted.

Antonis Vradis is a doctoral candidate at LSE, co-editor of the book Revolt and Crisis in Greece [AK Press, 2011], member of the Occupied London collective and Alternatives Editor of CITY.

Da http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2012/05/20125291733265576.html

[Grecia] La gente non si rende conto della sua reale forza

04-Mag-12

“La gente non si rende conto della sua reale forza”

Manifesto anti-elezioni del covo degli antiautoritari dell’Università Panteion

[Parigi] Vive la Commune!

03-Mag-12

 

 

 

[Teoria] Nicola Massimo De Feo – Bandiere nere su Kreuzberg

02-Mag-12

 

 

Pdf

Bandiere nere su Kreuzberg + Nietzsche e il comunismo

Bandiere-nere-su-kreuzberg-De-Feo

[Turchia] Primo Maggio a Istanbul – video/foto

02-Mag-12

for a free world with no money

your days of wealth are over

long live animal freedom

 

video della giornata:

http://youtu.be/_7TYG49XY0A

http://youtu.be/dOhvXXp3blY

http://youtu.be/976C7o2l5GM

http://youtu.be/7jBWJ1lPPpo

http://youtu.be/154GJg2QUAg

da: Contra-Info

[Roma] Sgomberata l’occupazione di via Prenestina

02-Mag-12

 

E’ durata poche ore l’occupazione di un locale di proprietà delle Ferrovie, sgomberato col sopraggiungere di quattro blindati intenzionati a chiudere nel più breve tempo possibile una, seppur, breve, nuova esperienza di lotta e autorganizzazione. Nel giro di poche settimane già due gli sgomberi eseguiti a Roma, un giro di vite a cui occorrà far fronte senza cedere al ricatto e alla paura.

Qui l’audio dello sgombero:

http://www.ondarossa.info/newsredazione/sgomberata-loccupazione-di-prenestina

Volantino distribuito dopo lo sgombero:

Oggi, 2 Maggio, abbiamo occupato un locale abbandonato di proprietà delle Ferrovie dello Stato situato in via Prenestina 44 a Roma. Volevamo aprire uno spazio di libertà.

Dopo poche ore, nelle quali si è tenuta una colazione sul marciapiede antistante lo spazio, siamo stati sgomberati da un massicio contingente di polizia accorso precipitosamente. In seguito gli sbirri si sono presi la briga di murare l’ingresso per scongiurare il pericolo – vista la foga sembrava temessero che da quella stanza potesse uscire il Demonio in persona.

In questi tempi di crisi sembra che la principale occupazione della polizia sia quella di reprimere  chiunque tenta di riprendersi un po’ di tutto quello che ci viene rubato dai padroni. Quando non si dedica direttamente ad ammazzare i poveri come recentemente accaduto a Ravenna, Firenze e Milano.

In questi tempi di crisi conosciamo chi specula sulla nostra pelle, ad esempio Trenitalia, che impone tariffe sempre più care e tagli al personale per reperire i fondi che poi sperpera nel progetto inutile e nocivo delle linee ad alta velocità (TAV). Per questo qualche settimana fa, durante le iniziative in appoggio alla lotta in Val di Susa, i NO TAV hanno tentato di occupare degli uffici di Trenitalia per aprire uno spazio di lotta. Non proviamo alcun rimorso ma anzi piacere nel riprenderci qualcosa da queste sanguisughe di regime.

In questi tempi di crisi, in cui ci vogliono lasciare tutti in mutande ed imporci di stare zitti, è importante alzare la testa. Lottiamo per riprenderci immediatamente quanto ci viene tolto: la possibilità di soddisfare i nostri bisogni. Lottiamo insieme a quelli che comprendono quanto accade e non vi si rassegnano. Le occasioni sono tante, la fantasia non ci manca, andiamo avanti.
Abbiamo più desideri noi, da esaudire, che loro celerini per reprimerli!

Occupanti di via Prenestina 44

[Bologna] Rinvio a giudizio per anarchici e anarchiche del Fuoriluogo

29-Apr-12

Il 24 aprile sono stati rinviati a giudizio, per associazione a delinquere con l’aggravante della finalità dell’eversione dell’ordine democratico, 21 dei 27 compagni e compagne coinvolti nell’inchiesta “Outlaw” partita l’aprile scorso con cinque misure cautelari in carcere e sette provvedimenti restrittivi.

Dopo due giornate di udienza in cui la pm Morena Plazzi è intervenuta per venti minuti al massimo esponendo con mediocrità e visibile noncuranza la richiesta di rinvio a giudizio, il Gup Andrea Santucci, come aveva già anticipato intervenendo dopo appena mezz’ora dall’inizio dell’udienza, ha deciso per l’accoglimento delle richieste della pm. A cosa siano servite due giornate e le ottime e fondatissime requisitorie degli avvocati proprio non è dato saperlo. Per sei posizioni è stato decretato il non luogo a procedere, ma per cinque di queste la richiesta era stata formulata dalla stessa pm. L’indipendenza della procura di Bologna dalle indagini di polizia, il suo essere filtro tra le accuse della digos e ciò che ha rilevanza penale, si sono dimostrati ancora una volta ampiamente inesistenti come uno degli avvocati aveva già segnalato in udienza. Per altro, la pm durante le pause del processo si faceva vedere in giro ridanciana ospite dell’auto della digos di servizio, ma non di scorta, al tribunale.La motivazione avvallante l’accusa, secondo la pm, è che gli imputati avrebbero promosso e diretto un’organizzazione che si ritrovava nel circolo (i cui locali sono stati sequestrati) finalizzata al compimento di violenze, lesioni, danneggiamenti, manifestazioni non organizzate. Di questi tempi per riuscire a organizzare presidi e manifestazioni si vede che bisogna associarsi tra delinquenti.
La prima udienza del processo è stata fissata per il 31 maggio prossimo davanti al tribunale collegiale.

[Genova] La bellezza è nelle strade

29-Apr-12

Testo di un volantino distribuito a Genova:

La bellezza è nelle strade

“Mai come oggi si è sentito tanto parlare di civilizzazione e cultura, mentre è la vita stessa che sta scomparendo. E c’è una strana corrispondenza tra questo crollo generale della vita, che comprende ogni singolo sintomo di demoralizzazione, e questa ossessione per una cultura pensata per tiranneggiare la vita”
A.Artaud

Succede che a Genova da qualche mese sia in corso una bella mostra sul tema del viaggio nell’arte del XIX e XX secolo, a partire dall’opera di Van Gogh.
Succede che il biglietto di questa mostra costi 13 euro, ovvero l’equivalente di oltre due ore di lavoro (in nero) per la maggior parte di coloro che sono chiamati a pagare la crisi, soldi che normalmente servono a mettere assieme il pranzo con la cena.
Succede che chi, nonostante gli anni noiosi della scuola, ha imparato ad apprezzare l’arte, ha capito che il modo migliore per convertire le nozioni trasmesse da pedanti manuali in oggetto di reale piacere e conoscenza, sia quello di vedere le opere d’arte dal vivo.
Succede che, mercoledì 18 aprile scorso, una ventina di persone, giovani e meno, anarchici e no, mettendo assieme tutto ciò, abbiano deciso di vedere la mostra ma di non voler (o poter) pagare quel prezzo. Non lo hanno fatto a sfregio degli altri visitatori, anzi, con striscione e volantini, ne hanno fatto un’azione politica, di rivendicazione per tutti a viversi l’arte “senza padroni”. Una volta entrati senza biglietto neanche l’imbarazzato intervento del direttore ha evitato che potessero godere dell’intera mostra fino all’ultima sala.
E’ successo che la risposta a questa iniziativa sia stata l’irruzione nelle sale di un manipolo di carabinieri, un plotone di celerini schierati in antisommossa nel piazzale antistante palazzo Ducale e la successiva caccia all’uomo nei vicoli. Questa brillante operazione di “sicurezza” si è conclusa con il fermo, la deportazione in questura e la denuncia per resistenza a pubblico ufficiale di uno di questi ardimentosi facinorosi, nonché con l’identificazione di tutti gli altri accorsi a presidiare la questura in solidarietà.

Ora, che celerini e questurini non siano soggetti dotati di particolare sensibilità, è risaputo. La bellezza, in quanto “promessa di felicità”, non può essere da loro, esseri infelici, compresa e apprezzata. Dovendo difendere l’ordine costituito non possono che perseguitare gli amanti della libertà. Cosa possono comprendere di Van Gogh, dell’insofferenza e della personale rivolta con cui ha impregnato le sue tele? L’unica bellezza per loro concepibile ha le sembianze di una griglia grigiastra, la griglia di norme e leggi che reggono l’impalcatura traballante di questo mondo opprimente.
Ma il senso di certi gesti dà la temperatura morale di un’epoca più di altre. La polizia che carica operai e studenti nelle città, o che gasa la popolazione intera di una valle in lotta, non stupisce più nessuno. Ma l’immagine di una squadra di scarafaggi neri che si aggira rabbiosa tra le tele di Van Gogh e Gauguin, con manganello e pistola alla cintura, rimanda ad altro. Ci si potrebbe limitare a sorridere della loro figura di merda. Ci si potrebbe anche compiacere del fatto che s’incazzino tanto per qualcosa che normalmente viene considerato superfluo e innocuo come l’arte. Ma la realtà è ben più triste e ricorda altri cupi tempi.
Ai solerti quanto ignoranti questurini ricordiamo che “da che mondo è mondo”, ovvero da quando questo mondo di merci e alienazione ci perseguita, una certa arte ha sognato e progettato la sovversione totale: realizzare la bellezza in un nuovo stile di vita di un mondo alla rovescia, reinventare la vita.
Qualsiasi cosa abbia avuto valore come arte ha sempre gridato la sua richiesta di essere realizzata e vissuta.
Fin da quando Courbet cominciò cercando di vendere i suoi quadri sotto un tendone in giro per la campagna e finì come sovraintendente alla distruzione della colonna Vendome durante la Comune di Parigi, e Mikhail Bakunin, durante l’insurrezione di Dresda del 1848, proponeva senza successo di saccheggiare il museo cittadino e di mettere i quadri sulle barricate per dissuadere la polizia dall’aprire il fuoco…
Chissà che la prossima visita ad una mostra non avverrà in condizioni simili e che questa promessa della storia rimasta in sospeso finalmente non si realizzerà.
Nel frattempo bene ha fatto questo manipolo di audaci a gettare un sasso nelle acque stagnanti dell’apatia. Con la loro incursione essi hanno aperto una breccia nelle stanze dei musei e il desiderio di bellezza e libertà si è per un attimo riversato nelle strade. Rifiutarsi di pagare per realizzare desideri e soddisfare bisogni è possibile e gioioso, come, di questi tempi più che mai, riappropriarsi di ciò che serve dagli scaffali dei supermercati, viaggiare senza biglietto sui mezzi pubblici o abitare case senza pagare l’ affitto.
Un saluto affettuoso a loro.

da: Informa-Azione

[Barcelona] Libertà per i compagni arrestati durante lo sciopero generale

25-Apr-12

 

 

da: ContraInfo

 

[25 Aprile] E dato che domani è il 25 aprile..

24-Apr-12

http://www.youtube.com/watch?v=VwcKwGS7OSQ

[Grecia] Quale violenza

24-Apr-12

Un altro suicidio politico di un insegnante di sinistra Metoikidis attivista Savas termina la sua vita
Sabato 21 aprile 2012

La sera del 21 aprile, 45 anni, insegnante di una ttivista di sinsitra. L’insegnante quarantacinquenne Savas Metoikidis. che si è impiccato nella sua città natale, Stauroupoli, vicino alla città di Xanthi, nella Grecia settentrionale. Savas era un compagno impegnato politicamente e ha lasciato un lungo manoscritto per spiegare le ragioni del suo suicidio, che sarà probabilmente pubblicato a tempo debito. Secondo le prime informazioni riguardo il manoscritto, si tratterebbe di manifesto contro il memorandum greco imposto dalla troika e dei suoi effetti sulla società greca.

Questo il suo messaggio: leggiamolo per radio

Chi sono, dopo tutto, i teppisti?

La violenza è di lavorare per 40 anni per delle briciole e chiedersi se si riuscirò a smettere
La violenza sono i titoli finanziari, i fondi assicurativi saccheggiati, la truffa in borsa.

La violenza è essere costretti a stipulare un mutuo per una casa che si finisce per pagare come se fosse fatta d’oro.

La violenza è il diritto del tuo capo ‘di licenziare in qualsiasi momento in cui gli piace farlo

La violenza è la disoccupazione, la precarietà, i 700 euro al mese con o senza contributi previdenziali.

La violenza sono gli “incidenti” sul lavoro, perché il padrone ridurre i costi di gestione a scapito della sicurezza dei lavoratori.

La violenza è quello di prendere psicofarmaci e vitamine per far fronte agli orari di lavoro

La violenza è per te di essere una donna migrante , vivere con la paura di essere cacciato dal paese in qualsiasi momento e di vivere in una costante insicurezza.

La violenza è per te di essere casalinga, lavoratrice e madre allo stesso tempo.

La violenza è per te che ti prendono per il culo al lavoro dicendo: ‘dannazione, sorridi, è chiedere troppo?’

Quello che abbiamo vissuto io lo chiamo una rivolta. E proprio come ogni rivolta appare come una prova generale della Guerra Civile, ma puzza di fumosità, gas lacrimogeni e sangue. Non può essere facilmente sfruttata o controllato. Accende le coscienze, si rivela e polarizza le contraddizioni, e promette, almeno, momenti di condivisione e di solidarietà. E traccia i percorsi verso l’emancipazione sociale.

Signore e signori, benvenuti alle metropoli del caos! Installate porte sicure e sistemi di allarme alle vostre case, accendete il televisore e godetevi lo spettacolo. La prossima rivolta sarà ancora più agguerrita, mentre il marciume di questa società si approfondisce … Oppure, si possono prendere le strade al fianco dei vostri figli, si può colpire, si può osare di affermare la vita che vi stanno derubando, si può ricordare che una volta eravate giovani che volevano cambiare il mondo.

Savas Metoikidis

[Roma] Festa delle Resistenze – Facoltà di Fisica – Sapienza

24-Apr-12

[Torino] Reclusi sul tetto, idranti e lacrimogeni al Cie

22-Apr-12

Al Cie di corso Brunelleschi a Torino sale di nuovo la tensione. In mattinata un recluso chiede di essere rimpatriato immediatamente: ha saputo che suo padre è morto e vuole tornare a casa. Alla risposta negativa dei funzionari della Questura, i compagni del ragazzo iniziano uno sciopero della fame in solidarietà con lui, rifiutando il pranzo.

Nel primo pomeriggio la tensione sale ancora, a causa di una questione relativa alla distribuzione delle sigarette: verso le due i reclusi delle sezioni Gialla, Rossa e Blu incendiano per protesta alcuni materassi.

Nel frattempo, una settantina di solidali si radunano fuori dal Cie per un presidio di solidarietà. Un po’ in tutte le sezioni piccoli gruppi di reclusi salgono sui tetti: alcuni bruciano i vestiti che chi è rimasto nei cortili passa loro, altri bersagliano i poliziotti di guardia con le bottiglie di plastica piene d’acqua. Dopo quasi due ore così, verso le 17.30 i reclusi della sezione Gialla salgono sui tetti portandosi dietro alcuni materassi, e bruciano pure quelli. La polizia questa volta risponde con i lacrimogeni, mentre gli uomini della Croce Rossa militare ci van giù pesanti con gli idranti.

Dentro non ci sono corpo-a-corpo ma, ad ondate successive, da fuori si sente l’odore del gas e si vedono gli zampilli dei getti d’acqua: per fortuna che qualche solidale ha pensato bene di lanciare oltre le sbarre delle confezioni di Malox, per aiutare i reclusi a resistere alle lacrime e al bruciore. Dopo lunghe battiture il presidio si trasforma in un corteo che blocca prima via Monginevro e poi via Mazzarello, verso l’entrata del Centro. Gli agenti si innervosiscono, corrono, spintonano alcuni dei manifestanti e poi chiamano altre camionette in aiuto. Alla fine, a resistere sul tetto restano solo i reclusi dell’area Gialla, mentre il corteo si conclude con l’accensione degli ultimi fuochi d’artificio.

Aggiornamento ore 22.00. I quattro dell’area Gialla sono ancora su, in un angolo riparato da una tettoia. Non vogliono scendere per evitare di finire in isolamento.

macerie @ Aprile 21, 2012