PROCESSO NO TAV
L’operazione giudiziaria del 26 gennaio scorso, secondo le parole del procuratore capo di Torino Caselli, ha voluto colpire dei singoli fatti delittuosi e non il movimento No Tav nel suo insieme. Il reale tentativo è stato quello di isolare dal proprio contesto i fatti del 27 giugno e del 3 luglio, depoliticizzare quelle giornate, colpendo chiunque si trovasse fisicamente ad affrontare la polizia per difendere la Libera Repubblica della Maddalena prima e per cercare di riprenderla poi.
“Portare la valle in città”
La solidarietà agli arrestati si è diffusa in tutta Italia confermando che la lotta No Tav non è solamente una lotta locale, ma trae la sua forza dal collegamento e dalla vicinanza con le altre lotte.
Il movimento No Tav ha assunto la questione repressiva come già aveva fatto dopo il 3 luglio, quando una campagna mediatica si era scatenata per costruire l’identikit del black bloc sbarcato in Val Susa per attaccare la polizia.
Il “siamo tutti black bloc” seguito dal “si parte e si torna insieme” da semplici slogan sono diventate pratiche e modalità condivise. Così anche nella fase processuale, momento particolarmente delicato, è necessario che si rivelino in tutta la loro forza, in quanto patrimonio collettivo.
Il fatto che la maggior parte degli arrestati non fossero abitanti della Val Susa ha provocato l’effetto opposto rispetto a ciò che si auspicavano i magistrati. Dopo gli arresti sono state innumerevoli le azioni di solidarietà diffuse in tutta la penisola e oltre, dai blocchi stradali alle occupazioni di stazioni, passando per i benefit e gli incontri pubblici a sostegno della lotta. Il collegamento del movimento No Tav con il resto del paese si è reso ancora più evidente, ancora più intenso.
Il processo è parte della lotta No Tav
Non sono solo la vicinanza e la solidarietà attiva agli arrestati a fare del processo una parte della lotta No Tav. E’ necessaria un’assunzione da parte di tutti, un’elaborazione comune delle pratiche e delle parole giuste per affrontare ogni fase processuale. Serve un collegamento tra i momenti giuridici, che si reggono su un terreno a noi ostile, e il ritmo della lotta stessa. L’intensità raggiunta con le esperienze vissute durante le varie fasi della lotta costituisce una risorsa preziosa che non possiamo permetterci di disperdere.
Mentre il processo inizierà il 6 luglio, un campeggio sarà già presente in valle, creando un spazio d’incontro dove intensificare i legami già esistenti e conoscere nuovi compagni. La circolazione tra questi due ed altri momenti sarà un’occasione per rafforzare il movimento e trasformare l’operazione repressiva, lanciata dalla magistratura, in un boomerang che le si rivolga contro.
Subire un arresto, dover passare mesi in carcere, sentire la mancanza di un compagno, un amico indispensabile per la lotta ha un peso enorme sulla forza del singolo e della collettività che gli è vicino. D’altra parte sono i momenti difficili a svelare quanto di politico nasconde un’amicizia, quanto è forte e indissolubile prendere dei rischi insieme, stringersi per non sentirsi soli a subire la repressione. Il volto del potere non assume i tratti di un’astratta figura che dirige e impone dall’alto, come un moderno Leviatano, ma è qualcosa di molto più familiare fatto di funzionari che ci negano permessi, poliziotti che ci svegliano nel cuore della notte, comportamenti che a volte noi stessi riproduciamo e dispositivi che ci tengono divisi.
Dagli arresti del 26 gennaio le misure restrittive sono state dure, tenendo ancora in carcere quattro compagni a distanza di quasi cinque mesi, censurando le corrispondenze, respingendo richieste di permessi. L’accanimento repressivo dimostra quanto la lotta No Tav faccia paura, perché capace di rendersi offensiva e non solo resistente, continuativa ma anche attraversata da momenti di accelerazione.
IPOTESI SU UNA DIFESA COLLETTIVA
A Milano alcuni imputati del processo No Tav si sono incontrati con altri compagni per iniziare a confrontarsi su come affrontare il processo che inizierà il 6 luglio al tribunale di Torino.
La volontà di costituire un’unità al processo, non è solo una scelta di difesa ma una possibilità d’attacco, in quanto l’obiettivo della giustizia, come già avvenuto con l’operazione repressiva, è quello di dividerci. Per questo le scelte individuali o le deleghe non consapevoli agli avvocati rischierebbero di depotenziare la difesa collettiva e di prestare il fianco all’accusa.
Unità non vuol dire uniformarsi ad una linea monolitica di difesa o cadere in un frontismo neutro che annulli le divergenze, ma significa arrivare compatti pur nella diversità di posizioni e di sensibilità. L’eterogeneità non deve essere un ostacolo: può diventare un’occasione per elaborare insieme le scelte su ogni passaggio processuale. Il processo dovrebbe essere affrontato con la stessa attitudine con cui il movimento No Tav è riuscito a rimanere compatto nelle sue differenze, anche nei momenti difficili. Così come parte e si torna insieme nei boschi della Clarea, e tra i guardrail dell’A32, con lo stesso spirito dobbiamo affrontare l’infame aula del tribunale.
Difesa comune significa confrontarsi il più possibile tra imputati e avvocati sulle scelte da fare, allargando la presa in carico del processo a tutto il movimento No Tav. Fondamentale è il collegamento con le prossime fasi della lotta, portando tutta la forza che il campeggio saprà esprimere all’interno del tribunale.
Scegliere il rito ordinario è un’occasione per collegare le fasi processuali con la lotta. Andare a dibattimento, portare testimonianze ed elementi difensivi significa entrare in un terreno ostile non come soggetti passivi che attendono il giudizio, ma prendendo parte al processo con lo spirito combattivo che caratterizza il movimento No Tav. Rinunciare a questa opzione e fare la scelta del rito abbreviato preclude ogni possibilità di rendere questo processo un’occasione politica e di rilancio della lotta. Oltre che esporre se stessi e gli altri a rischi maggiori, questo confermerebbe la tesi dell’accusa di trovarsi di fronte ad un movimento frammentato.
Pur consapevoli delle difficoltà soggettive ed emotive che attraversano gli imputati, la posizione più forte che possiamo sostenere è che davanti ai giudici non ci saranno degli individui chiamati a rispondere delle loro azioni, ma un intero movimento di lotta che non si è fermato davanti alle cariche e nemmeno davanti ad arresti e processi.
L’intenzione di questo documento è proporre una discussione rispetto al processo, alle scelte tecniche e un confronto per non arrivare divisi in aula, per non partire già rassegnati alla condanna.