12M/15M Appunti sul movimento
Questi appunti sono dedicati, in primo luogo, all’Universitat Liure La Rimaia, un’esperienza la cui improbabilità ed impossibilità ha alimentato molti di noi negli ultimi tre anni. In secondo luogo, sono dedicati al libro Autonomie! di Marcello Tarì, un libro di strategia rivoluzionaria che come un lampo illumina il nostro presente.
Queste riflessioni sono debitrici ad alcune discussioni fatte con Marcello ed altri compagni.
L’aver preso una piazza l’anno passato ha scatenato una situazione imprevedibile. Quei mesi di sospensione della normalità e dell’obbedienza ci hanno nutrito per un anno intero con la circolazione di una simpatia che va ben oltre la moltiplicazione dei gruppi, delle assemblee di quartiere e dei settori in lotta.
Potremmo dire che questa simpatia è l’espressione sensibile del desiderio, largamente condiviso, di cambiare alla radice l’ordine delle cose. Un uomo saggio ha detto di recente che mai il desiderio di una Rivoluzione è stato così diffuso, e che, allo stesso momento, mai è stato così difficile immaginare come metterla in atto.
Prima parte: un doppio punto di partenza
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C’è una tensione all’interno del movimento 15 M, una tensione tra due eredità storiche, tra due posizioni o tendenze. Questa tensione può essere risolta solo dall’interno.
Questa tensione la si incontra all’interno di alcune frasi che hanno determinato il nostro processo: “Senza sindacati e senza partiti” e “non violenza”.
Le due posizioni sono incarnate da due figure: il cittadino radicale e il rivoluzionario qualunque. Questi sono i due poli di attrazione che tendono la corda del movimento.
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Il cittadino radicale ritiene che sia ancora possibile salvare un ideale dello Stato che, con la la Rivoluzione Francese, nasce come un ideale di progresso, sviluppo ed integrazione di tutti ed ognuno dei suoi abitanti. Un ideale che alcuni ritengono fantasmagoricamente essersi incarnato nello Stato del Benessere arrivato dopo la carneficina e il massacro di massa della Seconda Guerra Mondiale. Il fatto è che, storicamente, la politica di sterminio non è mai stata estranea ai cicli di “crescita” del capitalismo.
Tuttavia, l’ideale del cittadino radicale vuole che nel potere democratico ci sia un fondo di razionalità e moralità universale. Se così fosse l’indignazione morale, il grido e le proposte ragionevoli sarebbero delle forze di trasformazione. Purtroppo non è così.
In realtà, questo ideale ha visto contrastata fin dall’inizio la sua realizzazione: per questo la storia del XIX, XX e XXI secolo è disseminata di insurrezioni, rivoluzioni, guerre e guerre civili. Non è solo una questione di oppressi e proletari, ma anche di altre figure, in primo luogo di quella del rifugiato e, decenni più tardi, di quella del migrante, figure che rivelano in modo significativo che gli stessi gestori dello Stato da quasi un secolo hanno rinunciato a questo “ideale”.
Nella fase attuale di questo processo disastroso il sistema deve accettare che la sua sopravvivenza implica lo sbarazzarsi di un grande surplus di popolazione: questo problema viene affrontato distruggendo le condizioni di vita o più semplicemente la vita stessa (tagli, piani di austerità, operazioni militari, guerra di massacro).
La realtà è brutale. A volte non guardarla in faccia ci rende la vita più facile, ma è anche il modo più semplice per finire con il pagarla a caro prezzo.
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Il cittadino radicale ha sfiducia nelle vecchie forme politiche – i sindacati e i partiti. Per questo si riconosce nella frase “senza sindacati e senza partiti”; ma, per questa figura, ciò non significa tanto che “nessuno ci rappresenta” bensì che “il governo non ci rappresenta fino a quando non si atterrà alla ragione” – di questo si parla nell’appello internazionale del 12M/15M.
Possiamo riassumere la sua posizione in due punti:
a) In primo luogo, essa si basa sull’iniziativa individuale, sull’impegno individuale (consumo responsabile, consumo ecologico e mille altre iniziative a cui il singolo può aderire). Il cittadino è una figura che nasce dal fallimento del comune al di là della famiglia, è una figura che si fonda su di una relazione singolare con il potere, a cui dà realtà quando lo chiama in causa – per protestare – o quando gli risponde – tramite il voto segreto, il lavoro, lo shopping, dichiarandosi “depresso” o facendo la dichiarazione delle tasse. Certamente questo rapporto individuale dà al cittadino integrato un potere, un poter-fare basato sulle sue conoscenze, sul suo lavoro, le sue relazioni, i suoi beni e i suoi soldi. Il cittadino radicale vuole affrontare individualmente il degrado delle sue condizioni di vita, è riluttante a perdere “i suoi beni”, il che è del tutto ragionevole. E tuttavia lo fa in base ad un ideale obsoleto e attraverso delle forme di lotta inadeguate che lo condurranno, a causa delle sua posizione riformista, al disastro o ad una nuova forma di fascismo.
b) In secondo luogo la sua posizione si basa sul tentativo di tornare a moralizzare il potere. L’Illuminismo ha portato questa confusione nella concezione occidentale del politico: come se I Diritti, le Leggi e gli Apparati estremamente violenti che le fanno rispettare fossero espressione del ragionevole, l’espressione di una morale universale, e non, come invece sappiamo, l’espressione di rapporti di forza.
Espressione scritta e istituzionalizzata dei rapporti di forza che viene “lasciata” esprimersi, nella pratica, al carcere, alla polizia, al tribunale o alla strada quando la situazione lo richiede, come recentemente ha ricordato l’attuale consigliere degli Interni catalano, il famigerato Sig. Puig (riferimento alla repressione e all’ondata di arresti attorno e dopo le ultime manifestazioni del movimento 15M e degli studenti, n.d.t.). Potrebbe sembrare assurdo soffermarsi su questi temi, per altro ben noti, ma ancora più assurda appare l’adesione del cittadino radicale alla posizione morale dell’ “indignazione”, la sua allergia ad intensificare il conflitto sulla base di un “pacifismo aggressivo” e la sua convinzione che, quando il Titanic sta affondando, è il momento di protestare o di salvare le meravigliose sedie a sdraio.
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All’altro polo del movimento emerge la figura senza volto del rivoluzionario qualunque.
Qui il movimento incontra un punto di partenza che, con uno strano salto temporale, ci pone nell’eredità diretta del momento rivoluzionario più alto vissuto in Europa durante gli anni ’70: le lotte autonome in Italia.
Attraverso questo salto temporale entriamo in relazione non solamente con queste lotte, ma con la parte migliore della nostra Storia. La figura qualunque di tutta una costellazione di insurrezioni e rivoluzioni sconfitte, o meglio, interrotte. Non c’è niente di meno neutrale della nostra memoria.
Alcuni, quelli che pensano la Storia in tempi molto brevi – facendo ricominciare la storia del mondo, per esempio, a ogni decennio – , spesso si sorprendono davanti a una tale dichiarazione. Tuttavia, guardiamo alle pratiche che stiamo portando avanti: occupazione di case e di spazi per organizzarci; comitati e assemblee di quartiere per il mutuo appoggio; assemblee e cordinamenti di lavoratori; autoriduzioni delle fatture, da un po’ di tempo visibile nel settore dei trasporti con iniziative come “Io non pago”, “Memetro” (detournamento del titolo del film Memento, iniziativa che viene definita ironicamente «un disordine della memoria, durante il quale l’individuo è incapace di ricordare che, secondo la legge, deve convalidare il titolo di viaggio» n.d.t), o il pirataggio dei codici dei biglietti di trasporto a Barcellona. Se non ci facciamo accecare da portali e schermi possiamo vedere, nelle nostre città del sud, l’effetto di un’invisibile illegalità di massa: effetto che riconosciamo nella proliferazione di allarmi, telecamere e agenti della sicurezza privata intorno a vestiti, cibo, bevande, attrezzature elettroniche, libri…; riscontrabile anche nei dispositivi di sicurezza e nelle campagne contro le frodi nel trasporto metropolitano.
Anche gli espropri e le manifestazioni più o meno selvagge fanno parte del nostro repertorio di azioni. Così come l’insistenza sull’ importanza della comunicazione e del coordinamento a fronte della forma ossificata dell’organizzazione classica, propria dei Partiti e dei Sindacati.
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Non solamente nelle pratiche, ma anche in alcune frasi che condividiamo riconosciamo una diretta eredità con le lotte autonome: effettivamente “senza sindacati e senza partiti “, ma, paradossalmente, anche “non violenti”. Abbiamo separato la frase in due parti per distinguere le potenzialità dai limiti.
La linea di potenza: “Senza sindacati e senza partiti” o come spesso si cantava: “Ningú. Ningú. Ningú ens representa, ningú…!” (Nessuno. Nessuno. Nessuno ci rappresenta,nessuno…!) Questa è una linea di potenza perché ci spinge a sperimentare, a trovare modi per condividere, organizzare e coordinare le nostre forze. Affermare questa posizione ci porta, nuovamente, a rompere con le principali forme di organizzazione che la coppia di spettri danzanti di un mondo in rovina, il movimento operaio e l’utopia liberale, hanno portato fino ai nostri giorni: partiti e sindacati nati nel XIX secolo e il cui cadavere vediamo oggi camminare con fermezza davanti a noi, all’inizio del XXI secolo.
Un limite interno al movimento è quello di persistere nel definire se stesso come “Non Violento”. Vorrei citare al proposito un vecchio stratega cinese:
“La flessibilità è vita, la rigidità morte. La debolezza attira sollievo, la forza il rancore. La flessibilità ha la sua logica, la rigidità la sua; la debolezza ha il suo campo di applicazione, la forza il suo. Raccogli questi quattro schemi di azione e domina il tuo gioco coscientemente. ”
Flessibilità, rigidità, debolezza, forza. Quattro schemi di azione che una grande strategia ha bisogno di conoscere e padroneggiare.
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All’interno di questa posizione definirsi, contemporaneamente, come un movimento “senza sindacati, senza partiti” e come “non violento” pone la questione della violenza nella direzione di quello che è successo in Italia, e altrove, alla fine degli anni ’70. Tuttavia in molti crediamo che sia a causa di una errata interpretazione. Perché, se è vero che il rituale e la pratica della violenza sono inseparabili dalle lotte autonome, è anche vero che è stata una certa intensificazione accellerata della violenza, fino a livelli insostenibili per il movimento, che le portò alla sconfitta. Accelerazione ed intensificazione proveniente da una frazione che sentiva la ricchezza e la diversità dell’area autonoma come qualcosa di extraterrestre. Bisogna anche tenere presente l’ impossibile mediazione tra il vecchio movimento operaio, compresi gli operai autonomi, e le lotte autonome dominate da un sentimento di estraneità radicale rispetto alla fabbrica e al mondo della fabbrica – tanto da portarle a disertarla; lotte autonome portatrici di una sensibilità, di un modo di combattere, di abitare e condividire direttamente politico, cioè in guerra contro il mondo, e che erano, allo stesso tempo, forme del tutto estranee alla tradizione operaista.
Se il vecchio movimento operaio è stato sconfitto, fin nelle proprie condizioni materiali di esistenza, ovvero la grande fabbrica legata al quartiere popolare; la classe operaia, vettore soggettivo e politico, scomparsa nel deserto degli anni ’80 … potrà tornare sotto nuove forme, ricomporsi, d’altra parte, solo come un noi che prende partito contro il mondo presente.
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Non si tratta di entrare in dispute storiografiche.
Quando diciamo che ci sentiamo eredi, che raccogliamo il testimone dal momento in cui il processo rivoluzionario è stato interrotto, non stiamo dicendo che si tratta di ripetere la storia, cosa che sarebbe solo una farsa. La risonanza tra le situazioni non implica la ripetizione delle condizioni materiali e spirituali di esistenza. Non è tanto una questione di analogia quanto di genealogia.
Il punto è comprendere che la potenza delle lotte autonome, ciò che fa sì che oggi tornino a risuonare dentro di noi, è radicata nel far rimanere uniti, nello stesso processo insurrezionale, tre piani dell’esistenza che tutto, nell’ ordine di questo mondo, ci porta a separare: 1) un piano materiale: i quartieri liberati, l’esproprio e l’uso condiviso e offensivo dei beni e dei saperi, delle macchine e delle tecniche. 2) Un piano spirituale e sensibile: dove si congiungono i nuovi comportamenti delle femministe, dei gay e dei giovani in generale, con un immaginario rinnovato e, contemporaneamente, erede delle diverse tradizioni sediziose, rivoluzionarie e guerriere; un immaginario che prende forma ovunque e che può concretizzarsi nella copertina più famosa della rivista Rosso, apparsa tra i focolai insurrezionali del marzo del ’77 a Bologna e Roma. Su questa copertina si può vedere, su uno sfondo rosso e nero, il corpo di una manifestazione durante degli scontri, e si puo leggere: “Avete pagato caro, Non avete pagato tutto. “3) Un piano offensivo, in cui la violenza era concepita ed eseguita in una maniera completamente diversa dalla violenza militare. Senza macellai. Una violenza tattica, situata. Una forma di vita che liberava I territori e che poteva difendersi.
Bisogna ricordare ora i quattro schemi di azione che il vecchio stratega cinese ci invitava a dominare: flessibilità, rigidità, debolezza, forza. Dovremmo anche ricordare che la punta di lancia del movimento Occupy è la città di Oakland, l’unica che a suo tempo rifiutò di dichiararsi “non violenta”.
Seconda parte: differenti strategie
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Una grande strategia ci pone di fronte a una lotta di lungo respiro, in cui i differenti piani di esistenza possano dispegarsi contemporaneamente, producendo una forma di vita capace di passare all’offensiva.
Contro questo punto di vista, la posizione cittadinista radicale tende a concepire la potenza del movimento all’interno del suo ideale della politica, la politica democratica in quanto sottomessa ad una ragione e una morale universale. La ragione discute e decide sulla base di una morale universale. Il discorso spiega, persuade e impone. Le forze vengono mobilitate lì dove sono necessarie.
Sembra ragionevole e, tuttavia, è assolutamente falso: perché in questo circolo virtuoso del Potere non è contemplata la divisione irriconciliabile che scuote il nostro mondo. La divisione tra i Nostri desideri, i desideri degli insorti, e degli oppressi, dei diseredati, dei disoccupati, dei precari, dei disagiati esistenziali …, che si organizzano per resistere; e contro di questi, i desideri del capitalismo e dei capitalisti, i Loro desideri.
Questa divisione irriconciliabile è la miccia dell’insurrezione. Acuirla fino ad arrivare ad una situazione irreversibile vuol dire prendere partito per la rivoluzione.
Noi desideriamo una forma di vita che incoraggi l’etica di una potenza comune. Inventare il comunismo.
Il capitalismo ci impone la separazione, la segmentazione, la divisione tra le differenti parti di noi stessi. La divisione tra ciò che siamo e quello che possiamo.
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Rompere con questo mondo che ci distrugge implica generare e abitare situazioni in cui possano tornare a intrecciarsi delle vite. “Se da sola non puoi, insieme possiamo tutto”.
La separazione quotidiana si rompe attraverso azioni, gesti, processi, piuttosto che attraverso parole e immagini. Tuttavia, le parole, che vengono usate per discutere le lontane astrazioni della politica classica (la Banca Centrale Europea, la Legge Elettorale …), servono anche a condividere le esperienze di lotta nei posti di lavoro; per mettere in comune degli strumenti che ci rendano più forti nei quartieri; per far circolare le iniziative sovversive, affinchè esse si incontrino e si coordino.
Le parole e le immagini servono anche affinchè una sensibilità condivisa raggiunga una certa densità e diventi contagiosa. In questo senso una “Dichiarazione” sulla nostra divisione irriconciliabile con il mondo capitalista potrebbe essere produttiva, ma deve essere coerente con l’elaborazione dei mezzi che possano rendere effettiva tale divisione.
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Come è stato detto da qualche parte, se c’è qualcosa di cui parlare nelle piazze è come preparariamo il giorno di azione del 15 maggio. Primo test di uno sciopero che attacchi il capitalismo globale. La chiave, per uno sciopero, è che ha la necessità di durare. Uno sciopero all’altezza della situazione ha bisogno di una temporalità più dilatata, una giornata di sciopero non è mai stata sufficiente.
Poi, sia nelle piazze, sia in un prossimo festival dei quartieri metropolitani, abbiamo bisogno di luoghi di incontro per condividere gli strumenti, le esperienze, le difficoltà. Capire quello che funziona e quello che non funziona. Incontrarci per affermare e condividere la differenza irriconciliabile che siamo rispetto a questo mondo.
In terzo luogo, sarebbe meglio evitare i “discorsi ragionevoli”, soprattutto da parte di figuri di dubbio genere su riforme immaginarie che nessuna forza può o vuole imporre.
Perché, come abbiamo già detto, la politica democratica non è ragionevole. Non è basata sulla ragione e sul discorso, ma sul rapporto di forze. Che cosa c’è di ragionevole nel salvare delle banche che hanno giocato alla roulette in Borsa provocando la chiusura di asili e ospedali? Così, invece di perdere tempo a discutere di argomenti riformisti che a prima vista possono sembrare molto ragionevoli, pensiamo, discutiamo, su come possiamo invertire le relazioni di forze a livello locale, in ogni situazione, in ogni luogo.
Cioè, se vale la pena incontrarsi per discutere, è per tracciare dei piani tattici e operativi che ci permettano di deporre il Potere lì dove si trova.
Terza parte: una figura del futuro si fa strada tra noi
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Hackerare l’economia.
Hackerare il quartiere e la metropoli.
Hackerare il Potere.
Maggio 2012
[Continua]
@ Barbarroja_